Il segno come "grado di misura" e "marchio" nella poesia di Carla Paolini

Gio Ferri


Ossessionato come sono dalla recente (giovanile o meno) s-vena poetica (cosiddetta), anemica poiché svenata e svenevole in una disperata quanto vana ricerca di superare senza danni gli abissi scoperchiati dal Novecento, e di resistere ai terrori di una sapienza freddamente se non sgradevolmente rivelatrice e priva quindi di consolanti orpelli post-romantici, confido che in questa occasione mi sia concesso di affascinarmi, letteralmente, di fronte alle ultime prove della poesia di Carla Paolini.

In una analisi della poetica greca, ormai 'antica' ma sempre originale - e mai seriamente sottolineata secondo il suo merito - Jesper Svenbro - (La parole et le marbre, 1976, Boringhieri 1984) fra i diversi tentativi del poeta greco di dar valore cosale, e quindi anche venale e civile-collettivo (secondo il privilegio di cui già godeva lo scultore), alla parola poetica e alla sua vocazione definitoria e non solo aedica e rapsodica, dice della nascita del testo e dello sradicamento dal canto. Principia così la concezione materialistica della scrittura poetica espressa dal verbo byssodomeuein, costruire (architettare) dal profondo dell'animo. O dalla mente, o della sensitività, potremmo dire noi. Questa profonda e materiale sensualità (bysso) era già stata dichiarata da Teagene. In parole nostre: verità biologica del dire, del segnare - in-leggiible - (è un detto di Giuliano Gramigna) in quanto non affrontabile dal discorso artificioso della prassi (menzognero per necessità di sopravvivenza), e leggibile dentro in un rapporto fra la sensualità intuitiva e l'energia delle cose (intese anche dalla fisica moderna come campi di energia, appunto).

Di questa energia, esprimendosi con rigore poetico materialistico e niente affatto aedico (di quanta poesia che non significa alcunché si dichiara con facile scappatoia la musicalità), si fa testimone - fredda, quanto fredda è l'irragione ineludibile e inspiegabile delle cose, della vita - Carla Paolini nella premessa a questa raccolta: "Il logos si fa respiro: alternanza di contrazione e dilatazione, cosa viva capace di autogenerarsi e di accendere nuove aree concettuali modulando e vivificando la deriva delle significazioni". E nei suoi para-sinonimi esprime senza sbavature, senza sentimentalismi d'accatto (tipici di molta confusa produzione odierna), l'autogenerante metamorfosi del verbo come oggetto biologico, corporale e quindi fisiologico. E, di conseguenza, cosmologico. E' ciò (in)esprime, solo per fare un esempio, il testo intitolato al Segno:

Inizia per indicazione / degenera in sfrego poi ferisce a graffio / trapassa fra orma e traccia / diverge da figura // decorre con immagine emblema simbolo / si supera al contrassegno / affonda in tacca d'impronta / investito con testimonianza su prova // d'istinto è connotato per carattere / non presume avvisaglie all'indizio / insegue linea fino al limite / spia avvertimenti sospetti / sigillo alla cicatrice / grado di misura / marchio a meta finale.

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